Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 21.11.2013 n° 26143
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E’ quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con la sentenza 21 novembre 2013, n. 26143.
Nel caso in esame, il ricorrente era stato licenziato in quanto aveva registrato le conversazioni dei colleghi, ad insaputa degli stessi ed in violazione del loro diritto di riservatezza, per dimostrare il mobbing nei confronti del primario, rispetto al quale il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione. Avverso tale licenziamento, il dipendente aveva proposto impugnazione, respinta sia dal Tribunale sia dalla Corte d’appello, in quanto la condotta del lavoratore integrava gli estremi della giusta causa di recesso per via della lesione del vincolo fiduciario con il datore di lavoro.
Aveva presentato, quindi, ricorso in Cassazione, censurando l’erronea valutazione dei giudici di merito i quali avrebbero giudicato legittimo il licenziamento in virtù della sola contestazione relativa "alle registrazioni delle conversazioni tra i colleghi al fine di supportare la denuncia di mobbing nei confronti del primario".
I Giudici di Piazza Cavour hanno sposato le argomentazioni della Corte territoriale, secondo cui dalle risultanze processuali emergeva che il ricorrente aveva tenuto “un comportamento tale da integrare una evidente violazione del diritto alla riservatezza dei suoi colleghi, avendo registrato e diffuso le loro conversazioni intrattenute in un ambito strettamente lavorativo alla presenza del primario ed anche nei loro momenti privati svoltisi negli spogliatoi o nei locali di comune frequentazione, utilizzandole strumentalmente per una denunzia di mobbing, rivelatasi, tra l'altro, infondata.” Alla luce di tutto ciò era venuta meno, nei confronti del ricorrente, quella fiducia che è elemento indispensabile per lo svolgimento dell’attività lavorativa, essendo stato irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario tra il dipendente e l'Azienda ospedaliera datrice di lavoro.
Per tali ragioni, confermando le motivazioni della Corte d’appello, la Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.