Come liberarsi di una proprietà immobiliare “fastidiosa”o di una quota di comproprietà immobiliare che comporta spese e adempimenti e che non è di nessuna utilità?
Sono
domande che spesso ricorrono nella prassi quotidiana, specie di
questi tempi in cui, tra imposte e difficoltà economiche, è
diventato un lusso poter essere proprietari di immobili.
Ma
si pensi anche al caso di chi ha ereditato un
piccolo appezzamento di terreno in una località lontana, sperduta,
mai frequentata; oppure al caso di chi si trova, sempre per ragioni
ereditarie, a essere divenuto comproprietario (magari
per quota infinitesimale) di un rudere inutilizzato e inutilizzabile,
che nessuno vuole comprare o ricevere in donazione e del quale
comunque ci si vorrebbe disfare, anche senza ottenere alcun
corrispettivo.
Come
sbarazzarsi di questi beni se nessuno li vuole comprare perché –
al pari del titolare – si ritiene la loro gestione un onere non
facilmente sostenibile? Anche la donazione, in alcune situazioni,
potrebbe essere non agevole. È vero che, a caval donato non si
guarda in bocca, ma con il mercato immobiliare nulla è davvero
“donato”.
La
rinuncia alla proprietà
Una
soluzione efficiente può essere quella della rinuncia al
diritto di proprietà o alla quota di comproprietà. Si
tratta di una soluzione che non sempre il cittadino conosce perché
viene raramente applicata, sia per ragioni di scarsa dimestichezza
con questo “rimedio”, sia per il fatto che è argomento poco
trattato sui testi di diritto, sia infine perché comunque l’idea
che una proprietà si possa dismettere, rinunciandovi, è assai poco
diffusa nella collettività, sia professionale sia non professionale.
C’è
senz’altro familiarità con la rinuncia all’usufrutto (per
effetto della quale il “nudo proprietario” torna a essere
proprietario “pieno”) e con la rinuncia alla servitù (con
la quale il fondo servente viene sgravato del peso da cui era onerato
a vantaggio del fondo dominante), ma la rinuncia alla
proprietà non è usualmente praticata.
In
sintesi, la proprietà è rinunciabile
unilateralmente da
parte del titolare del diritto, senza che ci sia bisogno di trovare
un altro soggetto che ne diventi – al posto suo – nuovo
proprietario. Tutto ciò che occorre è un atto
formato per iscritto [Art.
1350, n. 5, cod. civ. ]
che
deve essere trascritto nei Registri immobiliari [Art.
2643, n. 5 cod. civ
]“contro”
il rinunciante.
L’effetto dell’atto
è che la proprietà rinunciata diventa di titolarità dello
Stato [Art.
827 cod. civ.
],
il quale non può rifiutare, ma deve “subìre” l’ingresso nel
suo patrimonio del diritto rinunciato dal precedente proprietario. In
pratica, ogni cittadino può rinunciare alla titolarità di un
proprio immobile e per ciò solo “regalarlo” allo Stato che non
potrà mai rinunciare.
Anche
la quota di comproprietà si può rinunciare (sempre
con atto scritto, da pubblicare nei Registri immobiliari). In questo
caso si ha un duplice effetto:
1. il
diritto rinunciato non “passa” allo Stato ma agli altri
comproprietari, che subiscono una proporzionale espansione della
loro quota di comproprietà; essi non possono rifiutare questo
effetto, ma possono a loro volta rinunciare, a “beneficio” degli
altri comproprietari, fino a che ne rimanga uno solo (la cui
eventuale rinuncia, infine, fa arrivare il bene rinunciato allo
Stato);
2. se
il comproprietario rinunciante aveva spese da
sopportare a causa della sua comproprietà, la rinuncia alla quota di
comproprietà ha un effetto liberatorio (Art.
1104 cod. civ.) e
quindi toccherà ai comproprietari “superstiti” farsi carico
delle spese derivanti dalla comproprietà: sia di quelle già
maturate, sia dia quelle che matureranno eventualmente in futuro.