mercoledì 31 gennaio 2018

Breve guida sul lavoro domestico

A quale livello va inquadrata la collaboratrice domestica? Che orario di lavoro deve rispettare? Quanti giorni di ferie le spettano? Quanto va pagata? Con questa breve guida cercheremo di rispondere a questi e a numerosi altri quesiti, parlando di tutto quello che c’è da sapere in ordine al lavoro domestico.
Il lavoro domestico nella sua formulazione più diffusa è di carattere subordinato, ma nulla esclude che lo stesso si atteggi nella forma del lavoro autonomo. In questi casi i caratteri distintivi devono essere ricercati nell’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro.
Il contratto di lavoro, prevede quattro livelli di inquadramento in base alle mansioni svolte e ad ogni livello corrispondono due parametri retributivi: uno normale e uno superiore. Ciascun livello corrisponde ad un salario minimo, variabile a seconda che i collaboratori siano conviventi o meno con la famiglia.
Il periodo di prova
Il Ccnl del lavoro domestico prevede la possibilità di un periodo di prova normalmente retribuito. Durante il periodo di prova ambedue le parti possono recedere dal contratto, in forma scritta, senza motivazione e senza il termine di preavviso. Superato il periodo di prova, il prestatore di lavoro deve intendersi confermato e il periodo viene computato a tutti gli effetti contrattuali.
La tredicesima
Oltre alla retribuzione mensile, ai lavoratori domestici spetta anche la tredicesima, vale a dire una mensilità aggiuntiva da corrispondere entro il mese di dicembre. Per prestazioni inferiori all’anno la tredicesima è corrisposta in proporzione ai mesi lavorati. Il calcolo della tredicesima per colfbadanti e per tutti i lavoratori domesticiviene effettuato sulla base della retribuzione globale di fatto percepita durante l’anno.

Lavoro domestico: l’orario di lavoro

La durata normale dell’orario di lavoro è quella concordata tra le parti, nel rispetto dei seguenti limiti:
  • massimo 10 ore giornaliere non consecutive, per un totale di 54 ore settimanali per i lavoratori conviventi;
  • massimo 8 ore giornaliere non consecutive, per un totale di 40 ore settimanali, distribuite su cinque o sei giorni per i lavoratori non conviventi.
Si possono anche stipulare contratti con numero inferiore di ore, ma in quel caso per i collaboratori non conviventi la paga mensile varia in base al numero di ore, mentre per i collaboratori conviventi la paga rimane fissa anche al variare delle ore contrattuali, ma i contributi vengono calcolati in base alle ore lavorative.

I riposi settimanali

In ordine ai riposi settimanali va detto che al collaboratore convivente spettano 36 ore settimanali di riposo così distribuite: 24 ore nella giornata di domenica e le rimanenti 12 in qualsiasi altro giorno della settimana concordato tra le parti. Il lavoratore domestico matura 26 giorni di ferie per ogni anno di servizio, a prescindere dall’orario di lavoro. Le ferie sono un diritto irrinunciabile e devono essere usufruite, non possono essere indennizzate, tranne in caso di risoluzione del rapporto di lavoro. Il lavoratore convivente ha inoltre diritto sia al vitto che all’alloggio, mentre quello che presta servizio per 6 o più ore ha diritto solo al pasto. Qualora il datore non provveda direttamente al vitto o all’alloggio, al collaboratore dovrà essere corrisposta un’indennità sostitutiva. I collaboratori domestici non conviventi, invece, hanno diritto a 24 ore settimanali di riposo da godere nel giorno stabilito dalle parti nella lettera di assunzione.

Lavoro domestico: la contribuzione
Il datore di lavoro è tenuto a versare all’Inps i contributi previdenziali del collaboratore domestico. Il versamento deve essere effettuato entro i primi 10 giorni del trimestre successivo a quello di riferimento.

I documenti necessari per l’assunzione

Per la formalizzazione di un rapporto di lavoro domestico, il lavoratore al momento dellassunzione deve consegnare:
  • documento di identità (carta di identità, passaporto, patente);
  • codice fiscale;
  • se il lavoratore è extracomunitario deve possedere il permesso di soggiorno (motivi di lavoro non stagionale, motivi familiari, motivi di studio);
  • documenti assicurativi e previdenziali;
  • tessera sanitaria e ogni altro documento comprovante l’idoneità al lavoro;
  • eventuali diplomi o attestati specifici;
  • eventuali referenze di precedenti datori di lavoro.
Va precisato che responsabile del mancato controllo dell’autenticità dei documenti del lavoratore extracomunitario è il datore di lavoro.

martedì 23 gennaio 2018

Lavoratori autonomi: possono percepire la Naspi?

La Corte Europea ha riconosciuto anche ai lavoratori autonomi il diritto a percepire l’indennità di disoccupazione, senza discriminazioni
Gli Stati europei e dunque anche l’Italia, devono prevedere una forma di sostegno al reddito anche per la disoccupazione dei lavoratori autonomi. A fissare questo rivoluzionario principio è una sentenza della Corte di Giustizia europea depositata qualche giorno fa [ C. Giust. Ue causa C-442/16 del 20.12.2017.].
D’ora in poi, dunque, anche i lavoratori autonomi potranno percepire l’assegno di disoccupazione senza subire discriminazioni. Tutti i lavoratori, non solo dipendenti ma anche autonomi, hanno diritto di percepire l’indennità di disoccupazione. D’ora innanzi, infatti, se il lavoratore autonomo è costretto a chiudere la partita Iva o in generale la propria attività economica, dovrà avere accesso allo stesso trattamento del dipendente che perde il proprio lavoro, senza discriminazioni di trattamento.
Disoccupazione involontaria e ammortizzatori sociali
Il mondo del lavoro negli ultimi 10 anni si è trasformato e ha ridotto drasticamente le opportunità, tanto che i dati della disoccupazione, così come quelli della crisi, non cessano di essere sempre più allarmanti. Le difficoltà non riguardano solo i lavoratori dipendenti ma anche i lavoratori autonomi.
La nozione di disoccupazione involontaria – ha osservato la Corte Europea –  non è limitata ai soli casi di lavoro subordinato, ma comprende anche lo stato di cessazione di un’attività professionale autonoma, se causato da «ragioni indipendenti dalla volontà della persona interessata, come può essere una situazione di recessione economica».
Secondo la Corte di Giustizia europea, analogamente a un lavoratore subordinato che può involontariamente perdere il proprio lavoro dipendente a seguito, in particolare, di un licenziamento, una persona che ha esercitato un’attività di lavoro autonomo può trovarsi costretta a cessare tale attività. Questa persona potrebbe pertanto trovarsi in una situazione di vulnerabilità paragonabile a quella di un lavoratore subordinato licenziato. In simili circostanze, non sarebbe giustificato che detta persona non beneficiasse della medesima tutela di cui gode un dipendente che abbia cessato di essere un lavoratore subordinato. Da tutto quanto precede risulta che una persona che ha cessato di essere un lavoratore autonomo a causa della mancanza di lavoro dovuta a ragioni indipendenti dalla sua volontà, può, analogamente a una persona che abbia involontariamente perso il suo impiego dipendente, beneficiare della medesima tutela che spetterebbe a quest’ultimo, ivi compreso il diritto all’indennità di disoccupazioneprevista per i lavoratori dipendenti.
Autonomi e indennità di disoccupazione
La questione che ha portato alla sentenza di riconoscimento del diritto all’indennità di disoccupazione per i lavoratori autonomi nasce dalla richiesta fatta da un cittadino rumeno che, per cinque anni, aveva svolto l’attività di imbianchino e poi era stato costretto a chiudere per assenza di incarichi. L’uomo si era poi trasferito in Irlanda dove aveva chiesto l’indennità di disoccupazione per autonomi, prevista da una legge del 2005 [Art. 139 del Social Welfare Consolidation Act 2005 (as amended) [legge consolidata del 2005 sulla previdenza/protezione sociale (come modificata) ], ma lì gli era stata negata. E questo perché la direttiva comunitaria del 2004 [  Art. 6, par. 2, direttiva Ue n. 2204/38 ] prevede il diritto dei lavoratori di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri per periodi superiori a tre mesi a condizione di lavorare (onde non essere un eccessivo peso per lo Stato ospitante). Ribaltando il destino del lavoratore che, per ragioni di crisi economica indipendenti dalla sua volontà si era visto costretto a chiudere la propria attività,  la Corte di Giustizia europea gli ha dato ragione accogliendo il suo ricorso: il lavoratore autonomo disoccupato per motivazioni esterne e indipendenti dalla sua volontà, può trovarsi nello stesso stato di bisogno dei dipendenti licenziati e quindi non sono ammesse disparità di trattamento in relazione al correlativo diritto di percepire l’indennità di disoccupazione.
Autonomi disoccupati: spetta la Naspi?


A tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea è, dunque, imposta l’applicazione dello stesso ammortizzatore sociale indipendentemente dal tipo di lavoro, dipendente o autonomo che sia. Presupposto comune deve essere, come si legge nel dispositivo della sentenza, la cessazione di un’attività professionale determinata da ragioni indipendenti dalla volontà della persona interessata, come può essere una situazione di recessione economica.
Dopo questa sentenza è certamente auspicabile un rapido intervento legislativo di recepimento anche se, sulla base del carattere self-executing della sentenza, la stessa potrebbe trovare applicazione anche in mancanza di un intervento diretto. In realtà in Italia non sarebbe un intervento legislativo molto complesso: una disciplina esiste e deve solo essere estesa alle partita Iva, coloro che sono stati o sono iscritti in albi professionali.  Infatti, se è vero che la Naspi riguarda solo i lavoratori dipendenti, è ugualmente vero che qualche forma di indennità, come la Dis-Coll, è prevista anche per i collaboratori iscritti alla gestione separata e per gli artigiani e i commercianti.

Ma queste sono misure non certo paragonabili alla indennità di disoccupazione vera e propria. E, in particolare, non c’è niente per le partite Iva, che versano anch’esse alla gestione separata senza che vi sia la minima tutela per i casi di perdita delle commesse e del lavoro.

mercoledì 3 gennaio 2018

riflessioni

Anno iniziato, lo spirito è quello giusto, la tensione pure, la tenacia non manca, insomma gli ingredienti per ottenere il meglio ci sono tutti.

Dopo quanto tempo non bisogna più pagare l’IMU?

  Dopo quanto tempo non bisogna più pagare l’IMU? La prescrizione delle imposte locali è sempre di 5 anni salvo nel caso del bollo auto.  Sp...